giovedì 11 ottobre 2012

Improvvisazione sopra l'enigma del più grande clarinettista del mondo, sopra le colate di sangue che la rozzezza provoca, sopra il più bel film sul jazz che si sia mai osato fare



articolo pubblicato in Rifrazioni n.8, gennaio 2012, sul film di Franco Maresco dedicato alla vita e all'arte di Tony Scott.


      Il mio primo incontro con Tony Scott avvenne, credo, nel 2004 attraverso l'ascolto di uno dei suoi ultimi lavori discografici: Homage to Billie Holiday. Il suono di Scott era qualcosa di unico, era potente e pacato al contempo, era straziante, caldo e umano, si percepiva dentro ogni sua nota quanto l'omaggio alla grande cantante fosse sentitissimo, realmente viscerale e intimo - qualcosa di molto lontano in tempi dove i vari Homage to... a qualche grande musicista del passato sono divenuti così inflazionati da costituire quasi il filone predominante del jazz contemporaneo (filone ambiguo, spesso in bilico fra l'accattonaggio e il parassitismo) . Ma quello di Scott è altra cosa: è viva partecipazione
dell'anima sofferente dell'amica Billie, preghiera personale, estatico dono al mondo.
      Quell'incontro cambiò il mio modo di suonare, contribuì a farmi sviluppare un approccio alla musica più aperto e naturale, rafforzò in me l'idea che suonare come semplicemente desidero è giusto e saggio. Una scuola è solo una scuola, un linguaggio è solo un linguaggio, una tradizione è solo una tradizione, gli altari si costruiscono e si distruggono. L'universo è troppo vasto, l'ascolto del suo alito non ci consente di identificarci in un pensiero, in un sistema o in una serie di fatti.

     Dice bene Enrico Rava di Tony Scott, nel bellissimo film di Franco Maresco Io sono Tony Scott, ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz, quando afferma che ascoltarlo suonare nei suoi ultimi anni di vita era un esperienza incredibile: «Non era nemmeno più suonare, il suono del suo clarinetto era l'anima che parlava». L'anima che parlava, bisogna prendere questa espressione al di fuori di ogni metafora. Bisogna credere nella musica come possibile luogo in cui l'anima si manifesta, si rende tangibile e chiara. Bisogna credere che siamo parte del grande spirito dell'universo, e che possediamo i mezzi per partecipare della profonda bellezza del Creato. 
     
     "La musica non è una competizione, la musica è un suono universale..."
    Così Tony Scott in una delle sue ultime interviste – e lui non aveva bisogno di competere con nessuno, era il migliore (ci teneva a ripeterlo), ma era disposto ad ammettere, e anzi desiderava, che ci fossero altri migliori, cioè altre identità piene e libere, creature cangianti e forze dell'espressione che tutto trasfigura e tutto unifica. La libertà nella purezza porta all'eccellenza, lui ne è la prova vivente. 
    "Con la musica cerco la mia anima, [...] non m’interessa cosa fanno gli altri. [...] Oggi faccio una musica per curare l'anima ferita, una musica per curare me e allora mi chiedo: Se cura me, perché non può curare gli altri?. Io amo l'universo, prima non credevo in Dio, ora credo. [...] Prima di morire voglio fare una musica che poi la gente dica: Quella musica mi ha aiutato. Cerco di essere più buono, è difficile essere più buoni, cerco di fare una musica per curare".
   Parole magnifiche, dalla stessa intervista. Parole che riassumono un modo di essere nella vita sempre troppo raro, lontano, che in verità è importante quanto il respirare.

     Nella vita e nella musica di Tony Scott c’è qualcosa di imprendibile. Un clarinettista giapponese (nel ’64, all'epoca di Music for Zen Meditation), interrogato sullo stile del jazzista italoamericano, disse che era buono ma aveva il difetto di essere «troppo difficile da copiare», ed è così: la vera autonomia, la vera personalità portano nell’arte a questi piccoli disagi. La sua tecnica infatti è assolutamente unica: lo stile si forma nel solco del bop e del suo profeta Charlie Parker, ma questo portato viene da Scott fin da subito elaborato in modo estremamente singolare, senza mai peraltro smettere di svilupparsi e arricchirsi dei contributi linguistici più disparati. La sua musica era continuamente in evoluzione. Scott aveva la capacità di assorbire ogni influenza musicale, ma non copiava, non era un imitatore, bensì viveva le musiche. Per quanto concerne il suo modo di vivere il bop, si ascolti con quale sorprendente freschezza improvvisa in Five (brano contenuto nel disco A day in New York del ’54) – basata sull’abusatissimo “giro armonico” di I Got Rhythm (lo standard per eccellenza del jazz di quel periodo) – oppure si senta l'incredibile Music for Zen Meditation, album di libera improvvisazione collettiva per tre strumenti basata sullo stile della musica classica giapponese. 

    Un altro aspetto della sua personalissima tecnica è il suono: grosso, capace di arrivare a un volume pazzescamente alto, un volume che metterebbe in imbarazzo qualsiasi altro clarinettista (si noti, nel film di Maresco, l'imbarazzo di Buddy De Franco sul palco di fianco a Tony), e con un timbro pieno ed espressivo, vocale. Un suono che però sa essere confidenziale quando decide di stare su dinamiche meno squillanti: il clarinetto si mette allora a parlare in modo misterioso e stranamente accogliente, diventa gentile, ma non si confonda questa gentilezza con quella artificiosa (“di maniera”) di un Benny Goodmann o un Buddy De Franco, la gentilezza di Scott è sempre intrisa di tragedia, è profondamente nera, è in fondo la stessa cordialità dolente e sincera di Sidney Bechet. E poi l'estensione impossibile: sul clarinetto Scott era in grado di suonare con grandiosa agilità quasi cinque ottave complete, il che significa andare follemente in alto (l'ordinaria estensione dello strumento sarebbe di tre ottave e mezzo)… Si aggiunga che, oltre a essere stato il più grande virtuoso di clarinetto jazz del suo tempo, suonava con enorme calore ed espressività l'intera gamma dei sassofoni e il flauto.

    Già l’incredibile tecnica musicale di Scott lo rende imprendibile, come dicevo, straniante: un enigma. Ma ancora più enigmatica è stata la sua vita. Una vita fuori da qualunque logica di obbedienza o conformismo: «L'ultimo dinosauro di una specie estinta», così lo ha definito un critico americano. Ha vissuto da pazzo, Scott, e ai veri pazzi nulla è più caro della propria stessa pazzia. È stato fedele a se stesso e alla propria libertà a un livello che può apparire sconcertante. Per un periodo, negli anni ’80, il più grande clarinettista del mondo ha vissuto da clochard a Milano, dormendo sui navigli e suonando per i ratti – doveva aver capito che la meravigliosa sensibilità musicale di questi stupendi animali era molto al di là di quella dei milanesi. Ed è proprio della vita in Italia di Scott che si occupa l'opera di Maresco, un film che và a costituire il più sentito omaggio cinematografico che un jazzista abbia mai avuto e insieme il più bel film su jazz che si sia mai osato fare. 

    Anche Maresco è una specie di dinosauro, è un sopravvissuto in un tempo che non è il suo, un ostinato relitto umano nell'epoca della cibernetica integrale. Ha creato un film indignato e fatto per indignare. Diceva Pasolini che l'indignazione è prerogativa degli artisti e figlia dell'amore. Per vivere è necessario amare, è giusto quindi indignarsi quando ciò che si ama viene massacrato dalla rozzezza, dallo schifo che anela solo ad altro schifo. Io voglio che ci s’indigni davanti alla violenza che il film di Maresco mostra: Tony Scott umiliato in pubblico dall’osceno Paolo Bonolis; deriso da gente orgogliosa e ignorante; misconosciuto da musicisti stupidi e arrivisti.
    Voglio che ci s’indigni e che si impari a riconoscere cos’è un artista. Che si riconosca subito, “a colpo d'occhio”, lo scarto che c’è fra Tony Scott e i marchettari che vanno a costituire il gruppo di jazz “resident” di Bonolis. Che pagliacci costoro, che replicanti, che mediocri giullari!
    
    Sarebbe necessario che il film sul più grande clarinettista del jazz arrivasse a scalfire un po’ le anime morte di chi (e sono i più) si sono resi incapaci di riconoscere il divino nelle sue manifestazioni, impassibili davanti a qualunque forma di bellezza reale. Dico ciò perché queste anime putrescenti vedranno nel film le conseguenze della loro stessa rozzezza, vedranno come la loro schifosa vanità li porti a torturare con tutti i mezzi possibili ciò che è bellezza, incanto, sacralità; vedranno il loro sangue infetto portatore di pesti silenti e mortali; vedranno come questa loro energia pestifera abbia umiliato, degradato, deriso e canzonato uno dei più grandi artisti del ’900, e credo che per umiliare un artista ci voglia davvero una profonda cattiveria.
    
    Non c’è prezzo che possa riscattare il sangue di un artista, e la storia del jazz è pieno di sangue colato. Tony Scott è un torturato dentro una storia di torturati. La storia delle vite del jazz è storia di rapporti fra artisti sublimi e violenti depravati, di incontri tra farfalle e serpenti. È storia d’incantevolezza dentro le macerie, di ostinazione alla purezza fra oscuri giardini di guerra. Sangue colante giù dalle finestre dei bordelli in New Orleans, sangue colante dai colossi di cemento a New York, giù giù fino ai marciapiedi e all'asfalto grigio e bruciante, sangue colante sulla Senna e sul Tevere, sangue colante leccato dai ratti sotto ponti straripanti immondizia. 
    Abbiamo un film prezioso, che dell’isolamento e del dolore di un artista ha il coraggio di offrire una visione non edulcorata, abbiamo la musica che non smette di suonare, lo spirito che pulsa ancora sopra l’abbondante sangue che cola. Da questo sangue si parta per provare a comprendere l'enigma di Tony Scott, di Charlie Parker, di Thelonious Monk, di Billie Holiday, di Chet Baker...

    La musica è molto più di quello si pensa. La musica è più di qualunque pensiero. 


Raffaele Amenta

Bologna, 4 agosto 2011





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